Grandi illusioni: una lettura critica

La riflessione che pubblico di seguito è il risultato di un lavoro di analisi da me svolto durante il corso magistrale di Storia contemporanea tenuto dal professore Salvatore Adorno presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Si tratta di una analisi critica di alcune delle tesi del testo di Giuliano Amato e Andrea Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull'Italia. Al fine di verificarne la bontà, le argomentazioni degli autori sono state messe a confronto con quelle di due importanti storici italiani, Paul Ginsborg e Guido Crainz, e con quelle di Patrizia Battilani e Francesca Fauri, autrici di un agile volumetto sulla storia economica dell'Italia repubblicana.

Alcune considerazioni sintetiche sono state riservate al fenomeno del berlusconismo così come è stato inteso da Amato e Graziosi da una parte, e da Giovanni Orsina dall'altra.

Buona lettura!!!




Giuliano Amato, Andrea Graziosi
Grandi illusioni. Ragionando sull'Italia
L'analisi degli autori prende avvio dal 1945 ma lancia uno sguardo retrospettivo al Risorgimento italiano per affrontare il problema di una «rivoluzione mancata», ovvero della mancata formazione di una «comunità nazionale come unità politica», della permanenza di un dualismo élite-popolo inteso come frattura che si somma a quella tradizionale tra laici e cattolici, a cui l'assetto post-bellico aggiungerà quella tra fascisti e antifascisti1, comunisti e anticomunisti. Tutto questo, all'interno di uno Stato che all'indomani della guerra si presentava ancora – a quasi cento anni dalla sua formazione – come un organismo composito, fatto di esperienze storiche e culture differenti. Tuttavia l'Italia del dopoguerra «voleva essere sempre più la nazione di tutti gli italiani», voleva cioè ridurre l'arretratezza e l'ingiustizia che la caratterizzavano; espressione di questa volontà fu la stesura di una Costituzione attenta all'istituzione e alla tutela dei diritti sociali, nella convinzione, di buona parte del mondo politico, che senza di essi i diritti civili e i diritti politici sarebbero rimasti soltanto l'enunciazione di principi formali. Il secondo comma dell'articolo 3 e il primo comma dell'articolo 4, rappresentano l'esemplare codificazione dei «compiti» che la Repubblica ha nei confronti dei cittadini e dei «diritti» che essa riconosce a questi. Ma la collaborazione tra le forze politiche del dopoguerra, che trovò espressione nei governi di unità nazionale e da cui nacque la Carta Costituzionale, non durò a lungo: nel 1947 De Gasperi, come è noto, si recò a Washington per trattare le condizioni del Piano Marshall e al suo ritorno si dimise creando poi un nuovo governo senza le sinistre (secondo alcuni su pressione degli USA), in attesa delle elezioni del 1948. Gli americani, inoltre, avevano insistito «sull'adozione di rigide misure [economiche] interne come condizione preliminare per ogni aiuto»2; fu così che nei primi anni della Repubblica il «riformismo europeo cattolico sociale, socialdemocratico e liberalsocialista»3 di personalità politiche come Fanfani e Dossetti non riuscì a tradursi in una politica concreta. Il protagonista delle scelte economiche di questi anni fu, invece, Luigi Einaudi che già nel '46, in veste di ministro del Bilancio, «decise drastici provvedimenti per frenare l'onda di ascesa dei prezzi che rischiava di trasformarsi in iperinflazione»4, stabilizzò la lira e varò una serie di provvedimenti volti a sancire una ancora relativa autonomia della Banca d'Italia rispetto al Ministero del Tesoro. Tuttavia, il mantenimento dell'IRI – che pure si era pensato di sciogliere e privatizzare – la successiva creazione della Cassa per il Mezzogiorno (1950) e la nascita dell'ENI (1952), furono chiari segnali di quell'interventismo statale, o keynesismo «volgare», che – secondo gli autori del testo in esame – costituì da un lato la via italiana alla modernità ma dall'altro contribuì al vertiginoso aumento del debito pubblico e alla conseguente stagnazione economica che oggi vive il nostro paese.
Amato e Graziosi rilevano inoltre la natura composita della DC: se da un lato troviamo la presenza della corrente Iniziativa democratica, di cui Fanfani era riferimento, che propugnava l'intervento dello Stato nell'economia; dall'altro troviamo invece quella parte del partito di impronta liberista che a quella politica economica si opponeva. Furono tre, secondo gli autori, gli eventi che convinsero De Gasperi, di per sé riluttante, ad aprire alle politiche fanfaniane: la così detta operazione Sturzo, un'opposizione conservatrice proveniente dalla parte del partito più vicina al Vaticano; le elezioni del 1953, con l'affermazione delle destre al Sud; e il fallimento del progetto politico degasperiano che attraverso il varo della «legge truffa» avrebbe dovuto concedere una maggioranza assoluta alla DC, liberandola dal peso delle destre e dalla pressione della Chiesa. Alla luce degli eventi, De Gasperi decise quindi di benedire la politica di Fanfani che di lì a breve avrebbe ricoperto il ruolo di segretario, contribuendo a quella fusione tra Stato e partito, a quel «modello spartitorio» a cui gli autori del testo, a mio avviso, hanno attribuito un ruolo eccessivamente marginale nella formazione del debito pubblico – tra i temi centrali del testo – specie in quelle degenerazioni corruttive che, invece, Ginsborg e Crainz sottolineano con maggiore enfasi:


era stato il fascismo, annotava [Ernesto Galli della Loggia], che aveva introdotto e «diffuso in maniera rilevantissima nella società italiana la presenza del partito». Fu per la prima volta con il fascismo che «le grandi masse degli italiani videro entrare il partito nella loro vita quotidiana […], si abituarono a considerare il partito come mediatore abituale – e in un certo senso addirittura obbligato – del loro rapporto con lo Stato […]. La partitocrazia democratica, insomma, ha il suo atto di nascita nel fascismo. E la compenetrazione del partito con lo Stato si è rivelata fattore decisivo nello spianare la strada al clientelismo e alla corruzione politica»5.


L'erede naturale di questo modello fu inevitabilmente la DC, «l'unico partito politico dell'Europa occidentale ad essere rimasto al potere senza interruzioni fin dal 1947»6, creando in tal modo un formidabile livello di fusione tra Stato e partito, che trovò nella gestione degli enti pubblici uno strumento per allargare e consolidare la propria base elettorale.
Il fallimento dell'apertura ai neofascisti del MSI, voluta dal democristiano Tambroni nel 1960, aprì la strada ai governi di centrosinistra guidati da Fanfani prima e da Moro poi. Il contesto internazionale e la rivoluzione in atto nella Chiesa, avevano permesso l'alleanza con una parte del mondo socialista: l'obiettivo era quello di avviare una serie di riforme per realizzare giustizia sociale «attraverso una più equa distribuzione della ricchezza […] e per questa azione non si può non invocare l'iniziativa dello Stato»7. Così, nel primo governo di centrosinistra Fanfani, con il sostegno dei socialisti di Nenni, avviò una fondamentale e discussa nazionalizzazione del settore elettrico che portò alla nascita dell'ENEL. Questo, secondo Amato e Graziosi, non solo contribuì all'indebolimento del capitalismo italiano, ma disorientò anche gli ex vertici delle aziende elettriche (gli azionisti non furono invece indennizzati) che erano stati indirizzati a reinvestire i capitali ricavati dalla nazionalizzazione nel settore chimico: «non si capisce – scrivono gli autori – perché dirigenti competenti e capaci nel campo dell'industria elettrica avrebbero potuto fare cose egregie in campi nuovi, come la chimica, di cui sapevano poco»8. Ginsborg, tuttavia, mette in luce ulteriori aspetti: in primo luogo, il fatto che quel monopolio costituiva un potere capitalistico conservatore e nemico del riformismo di centrosinistra; in secondo luogo, sostiene che «il pagamento diretto ai piccoli azionisti non avrebbe con tutta probabilità comportato un grado di dispersione del capitale più elevato», e quindi non avrebbe indebolito il capitalismo italiano, perché una cospicua parte di quel denaro venne malamente investito dagli ex vertici aziendali in operazioni finanziare e borsistiche. L'altra grande riforma da attribuire al centrosinistra fu quella della scuola media unica che costituì il primo colpo al sistema scolastico gerarchico, autoritario e classista italiano: si elevò l'obbligo scolastico e si eliminò la separazione delle carriere, un sistema selettivo e discriminatorio. Il bilancio dei governi di centrosinistra fu comunque molto magro, vinse il riformismo minimalista di Moro insieme al suo immobilismo, e numerose promesse (riforma urbanistica, riforma agraria, amministrazione statale ecc.) rimasero incompiute; mentre una parte del partito socialista, entrata nella stanza dei bottoni, «stava diventando clientelare e corrotta come la DC»9. Sono molti perciò gli storici che vedono nell'esperienza di centrosinistra un'occasione mancata: Amato e Graziosi, in particolare, sottolineano come proprio a metà del settimo decennio del secolo si presentarono i primi segnali della fine di quell'energia che stava attraversando l'Italia dai primi anni Cinquanta10. Due sono i fattori sui quali l'analisi degli autori ritorna reiteratamente: l'inurbamento con l'emigrazione dal Sud al Nord, e l'aumento demografico. Il primo era destinato a finire quando le città e il Settentrione avrebbero assorbito le risorse umane provenienti dalla campagna e dal Sud, e in ciò giocarono un ruolo anche le necessarie politiche governative a favore del Meridione che provarono a colmare lo iato tra le due parti del paese; il secondo subì una inversione di rotta quando venne meno la convenienza individuale a fare figli11, frutto di una mentalità nuova, figlia del miracolo economico e di quel «consumismo edonistico» che "imponevano" una prole ridotta per garantire a questa le recenti conquiste di benessere, alle quali non si era più disposti a rinunciare.
L'inversione di tendenza demografica avrebbe dovuto costituire un campanello d'allarme soprattutto per la sostenibilità del sistema pensionistico istituito nel 1969 che, con lo scopo di superare il modello occupazionale e garantire una più estesa assistenza (di questi anni è la pensione sociale), passò da un sistema a capitalizzazione ad uno a ripartizione. Quest'ultimo, come è noto, è sostenibile soltanto fin quando il numero dei lavoratori supera quello dei pensionati, perché sono i primi, con i loro contributi, a sovvenzionare i sussidi dei secondi. Inoltre, con la stessa riforma, gli importi delle pensioni vennero calcolati non più sulla storia contributiva ma secondo la retribuzione degli ultimi cinque anni, aprendo la strada a una serie di speculazioni che avrebbero pesato sulle casse dello Stato12. Amato e Graziosi, inoltre, sottolineano come la successiva creazione del SSN – di cui danno un giudizio tutto sommato positivo – contribuì al precipitare della situazione perché cure migliori, gratuite e universalizzate, allungando la vecchiaia dei cittadini, protrassero ulteriormente l'assistenza pensionistica e contribuirono all'incremento della spesa pubblica, in quanto «si è calcolato che circa la metà dei costi della salute relativi ad un singolo individuo è ormai legata al suo ultimo anno di vita, ed è cioè spesso sopportata per prolungarne di qualche mese l'agonia»13. Personalmente credo che affermazioni di tal sorta siano piuttosto ciniche se non addirittura pericolose: «è fin troppo facile – ammoniva D. J. Goldhagen – divenire insensibili al vero significato delle cifre». Tuttavia ritengo che non sia possibile non concordare con la riflessione degli autori almeno per quanto riguarda la riforma del sistema pensionistico nel quale le "baby pensioni" costituiscono forse il peggiore lascito e la prova inoppugnabile di un sistema insostenibile e ingiusto: in alcuni casi bastarono quindici anni di servizio per percepire un normale trattamento pensionistico14.
Insomma, se l'Italia del 1945 fu un paese arretrato e ingiusto, la situazione migliorò radicalmente tra gli anni Sessanta e Settanta, molte richieste furono soddisfatte ma, sostengono Amato e Graziosi, «senza preoccuparsi di aumentare nella misura necessaria […] le entrate dello Stato e proprio nel momento in cui si esaurivano i fattori oggettivi che avevano alimentato la straordinaria crescita precedente»15. I partiti al potere erano venuti meno nel loro compito ortopedagogico che secondo Amato e Graziosi doveva tradursi in aumento delle entrate e fine delle politiche sociali a debito. Le difficoltà a tradurre in atto tale compito vanno rilevate in almeno tre fattori: virare verso politiche impopolari avrebbe significato perdere consenso e, di conseguenza, potere; in Italia operava il maggiore partito comunista del blocco occidentale ed alimentare le grandi illusioni era un modo per contenerne l'energia; infine, gli autori evidenziano l'inadeguatezza delle élites politiche che, acquisito il modus operandi del «keynesismo volgare», procedevano secondo una «coazione a ripetere», trovando difficile adeguarsi ad una realtà che stava cambiando.
Intanto i processi di integrazione monetaria tra i paesi dell'Europa proseguivano. Nel 1972 l'Italia aveva aderito al Serpente monetario europeo (SME) come risposta al provvedimento del presidente Nixon che aveva messo la parola fine all'ordine monetario stabilito a Bretton Woods. Nonostante l'obiettivo europeo fosse quello di una stabilizzazione monetaria, l'Italia continuò con le sue politiche inflattive, come risposta alla crisi petrolifera ma anche per mascherare il problema del debito; esse infatti costituivano una tassazione indiretta. Il 1981 fu l'anno della riforma Andreatta, conseguenza dell'ingresso nel Sistema monetario europeo avvenuto nel '7916: il Ministero del Tesoro non poteva più "costringere" la Banca d'Italia ad acquistare i titoli emessi dallo Stato attraverso l'emissione di nuova moneta; così facendo la moneta si stabilizzava, si frenava l'inflazione, ma si mostrava il fianco alla speculazione perché gli interessi sui BOT venivano stabiliti esclusivamente dalla «mano invisibile» che regola il mercato. L'Italia aveva quindi perso un importante strumento economico utilizzabile a fini politici, e legava la propria virtuosità – che non era riuscita a raggiungere autonomamente – a vincoli esterni e a meccanismi ciechi, cedendo buona parte della propria sovranità ad entità sovranazionali.
Il controllo dell'inflazione che derivò dalle riforme appena citate e la favorevole congiuntura internazionale alimentarono, proprio negli anni di Craxi (1983-87), l'ultima «grande illusione» prima della stagione di Tangentopoli e delle crisi degli anni Novanta e Duemila: mentre «molti paesi industriali fecero ordine nelle proprie finanze […] da noi prevalsero le cicale, lo sperpero, l'arricchimento privato e l'impoverimento pubblico»17. Tuttavia, nonostante Craxi venga spesso descritto in termini tutt'altro che lusinghieri dagli autori, il leader socialista trovò modo di sferrare un duro colpo al meccanismo della scala mobile, che avrebbe costituito l'esempio lampante di una prassi iniqua ma diffusa nella Repubblica, tesa a tutelare in misura maggiore alcune categorie rispetto ad altre. Ad ogni modo, gli anni del craxismo, durante i quali Giuliano Amato fece parte della Segreteria alla Presidenza del Consiglio, sembra furono segnati da parsimoniose e prudenti politiche di bilancio, vanificate purtroppo dagli interessi sul debito18. L'era Craxi finì, come è noto, quando la magistratura milanese portò a galla il «sistema delle tangenti» che stava imperversando nel mondo partitico italiano, mettendone a nudo la degenerazione. Ci si potrebbe chiedere, come fa Crainz, quanto gli italiani fossero conniventi o addirittura complici di un degrado morale che portò al collasso di quella che venne poi chiamata, indebitamente, Prima Repubblica19; se non altro perché il futuro avrebbe richiesto una palingenesi, bandiera di nuovi movimenti politici, che non ci fu affatto.
Profondi e travagliati cambiamenti stava invece vivendo la sinistra comunista: dopo la caduta del Muro, nel 1991 lo scioglimento dell'URSS costituì la perdita di un orizzonte di senso che disorientò vertici e base del PCI. Non era la prima volta che il partito assorbiva duri colpi (si pensi alle dichiarazioni al XX Congresso del PCUS, o ai fatti di Praga e Ungheria) ma questa volta la frattura col passato sembrava più netta e il partito comunista, secondo alcuni, non aveva più ragione di esistere. Nacque così il Partito Democratico della Sinistra, che sotto la guida di Achille Occhetto avrebbe tentato di porre fine all'anticomunismo italiano – con scarsi risultati, visto che di lì a breve proprio questo sarebbe stato un cavallo di battaglia del berlusconismo – mentre una parte del PCI che rimaneva ancora legata all'esperienza, alla storia e alla diversità del comunismo italiano diede vita al Partito della Rifondazione Comunista.
L'Italia comunque proseguiva sulla strada che avrebbe condotto all'unione monetaria firmando il Trattato di Maastricht che prevedeva una serie di target economici necessari per l'ingresso nella moneta unica, tra i quali, un rapporto deficit/PIL del 3% e un debito pubblico inferiore al 60% del PIL. Il Paese non rispettava nessuno di questi vincoli e per di più stava attraversando una «crisi drammatica» che indusse il Presidente della Repubblica, Scalfaro, a nominare Amato come capo di un governo tecnico, i cui meriti nel riordino dei conti pubblici sembrano essere riconosciuti anche da Guido Crainz e Patrizia Battilani: la logica dell'emergenza permise infatti misure straordinarie e fu possibile varare una manovra da 30.000 miliardi di lire. Intanto, mentre un ulteriore governo tecnico, guidato da Ciampi, proseguiva sulla linea economica impostata da Amato, l'imprenditore milanese Silvio Berlusconi, si preparava, con la sua discesa in campo, a segnare la politica italiana dei successivi vent’anni. Infatti, dopo la rovina politica di Craxi – mostratosi sensibile alle esigenze delle reti del gruppo Fininvest – Berlusconi sentì la necessità di entrare in prima persona nell'agone politico, e in soli sei mesi, approfittando con un tempismo perfetto della voragine politica che i primi anni Novanta avevano aperto, fondò Forza Italia e vinse le elezioni promettendo un «nuovo miracolo economico», una nuova illusione dopo la prosaica realtà di due governi tecnici. Tuttavia Amato e Graziosi, tralasciando qualche dettaglio, riescono a proporre un'immagine positiva del primo governo Berlusconi che, contando su gruppo di intellettuali liberali e riformisti provenienti dalla società civile, presentò un provvedimento per la riforma del sistema pensionistico, trovando però l'ostruzione della Lega che riuscì a far cadere il governo per difendere pensioni, e voti, del popolo lombardo. Scalfaro però impedì una nuova tornata elettorale e l'onere della riforma passò quindi al governo Dini, già ministro nelle file di Forza Italia, che introdusse il sistema contributivo ma soltanto per le nuove generazioni di lavoratori, l'esempio di una prassi che Amato e Graziosi rilevano lungo tutta la storia della Repubblica: ipotecare il futuro per garantire il presente.
A differenza di quanto sostengono gli autori, lo storico Giovanni Orsina, non sembra articolare l'avventura di Berlusconi in un prima e un dopo ma affronta il fenomeno in maniera unitaria, prendendo atto di alcune peculiarità nel progetto politico di Forza Italia. In primo luogo il berlusconismo sarebbe l'espressione di un'antipolitica strutturale20, cioè diretta «non soltanto contro la qualità della politica, ma anche e soprattutto contro la sua quantità»21; tuttavia, la politicizzazione dell'antipolitica, propria del berlusconismo, presenta inevitabilmente dei tratti di antipolitica congiunturale in qualità di pars costruens. Di conseguenza, le velleità ortopedico pedagogiche dello Stato vengono considerate oppressive e perciò categoricamente rifiutate per accogliere piuttosto un progetto ipopolitico che, a differenza dell'iperpolitica della tradizione progressista e antifascista, si rifiuta di cambiare lo staus quo: insomma, per Berlusconi gli italiani vanno bene così come sono. Sembra quindi che il primo vigoroso progetto di destra non fascista – grande assente nella politica italiana – assuma fin da subito dei connotati atipici, che inducono Orsina a interrogarsi sul rapporto tra qualunquismo e berlusconismo come moderatismo antipolitico che, in quanto tale, è anche anti- antifascismo. Infine, un ulteriore aspetto del berlusconismo sarebbe anche il rifiuto delle élites politiche di professione le quali, chiuse nella loro autoreferenzialità e lontane dal popolo, dovranno essere sostituite da professionisti della società civile, uomini comuni in grado di tornare alle loro occupazioni dopo la breve parentesi politica. Ad ogni modo, sembra innegabile che Berlusconi rappresentò l'ossessione immobilizzatrice della sinistra moderata italiana che tentò di definire la propria identità tramite la lotta al nemico, quasi dimenticandosi di tutto il resto.
Ritornando alle riflessioni degli autori, sembrerebbe «possibile dire che Amato, Ciampi, Dini, Prodi e D'Alema riuscirono riparare il sistema idraulico del paese ma non a svuotare l'enorme invaso del debito pubblico»22 perché la loro biografia e formazione politica si poneva in sostanziale continuità con l'Italia degli anni Sessanta, proprio nel momento in cui aveva fine l'eurocentrismo ed esplodeva l'economia dei BRICS. Inoltre, i bassi tassi di interesse, primo ma temporaneo frutto dell'ingresso nell'euro, permisero di riprendere fiato ma l'occasione fu nuovamente lasciata cadere senza essere capitalizzata, rinviando «scelte che sarebbe stato meno doloroso fare allora» e vanificando i pochi sforzi riformatori degli anni precedenti. Sarebbe stato Tremonti23, durante il terzo governo Berlusconi, ad avere una visione più realistica della situazione italiana; mentre Mario Monti, capo di un governo tecnico d'emergenza fu costretto a dare «una risposta socialmente costosa» ma – secondo alcuni – necessaria e improcrastinabile che condusse, con una fulminea riforma costituzionale, all'introduzione del pareggio di bilancio nella Carta. La strada intrapresa sembra essere quella delle privatizzazioni su larga scala, dei tagli al welfare e della contrattazione salariale ritagliata sulle esigenze delle imprese. Quella da intraprendere, secondo gli autori, è la strada di una immigrazione selezionata che sappia risanare la demografia italiana, di una rivalutazione in senso meritocratico del sistema scolastico, e di una produzione ed esportazione sui mercati esteri di quanto i paesi che stanno vivendo il loro miracolo economico non sono ancora in grado di produrre.


Considerazioni finali

Escludere l'esigibilità dei diritti sociali è una conseguente limitazione dello status di cittadinanza, inteso come insieme di diritti politici, civili e sociali, e mina l'uguaglianza sostanziale degli individui. Da qui risulta necessario interrogarsi sullo stato di salute delle democrazie europee. Forse il sogno del mondo finanziario è quello di far funzionare lo Stato come un'azienda, eliminando le idee socialiste dalle Costituzioni, rafforzando gli esecutivi a spese dei parlamenti, e limitando «la licenza di protestare se vengono proposte modifiche sgradite dello status quo»24. Oggi l'economia agisce su scala globale mentre gli strumenti politici sembrano essersi ridotti nonostante la creazione dell'Unione Europea che in certi aspetti sembra essere la causa stessa dell'handicap politico. La moneta unica è stata fatta – come riconosce lo stesso Amato – in maniera «garibaldina», senza cioè una preventiva unione politica e culturale. Nonostante questo, la strada più sensata sembra essere quella che conduce alla creazione di organismi politici internazionali che non siano però estensioni dei governi di superpotenze o rappresentanti di ristretti gruppi d'interessi.
Ci si potrebbe chiedere inoltre se lo sviluppo fondato sull'aumento demografico non ponga un serio «problema ecologico» e giochi al ribasso sui diritti dei lavoratori; e se la richiesta di una società meritocratica non nasconda piuttosto tendenze aristocratiche, dove i migliori sono solo quelli che dispongono di un maggiore ventaglio di possibilità.



Note:

1 G. Orsina nota come nella storia dell'Italia post-bellica – accanto alle categorie di fascismo e antifascismo – sia opportuno aggiungere quella dell'anti-antifascismo che, nelle sue varie forme, si manifesta anche come l'anti-antifascismo degli ápoti, di coloro che vogliono «essere lasciati in pace» e che troveranno un referente politico nel Fronte dell'Uomo Qualunque e in Forza Italia.
2 P. Ginsborg, Storia dell'Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino, Einaudi, 2006, p. 149.
3 G. Amato, A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull'Italia, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 41.
4 P. Battilani, F. Fauri, L'economia italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 74.
5 G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, Roma, Donzelli, 2009, p. 26.
6 P. Ginsborg, Storia dell'Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 204.
7 Tra virgolette alcune parole del Presidente della Repubblica Gronchi in un discorso del 25 marzo 1961.
8 G. Amato, A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull'Italia, cit., p. 83.
9 P. Ginsborg, Storia dell'Italia dal dopoguerra ad oggi, cit., p. 379.
10 Alla fine degli accordi di Bretton Woods, avvenuta nel 1971, si aggiunse poco dopo il ristagno e poi il declino demografico.
11 Amato e Graziosi sostengono che secondo la convenienza sociale, fare figli sia sempre auspicabile.
12 P. Battilani, F. Fauri, L'economia italiana dal 1945 ad oggi, cit., pp. 111-117.
13 G. Amato. A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull'Italia, cit., p. 130.
14 P. Battilani, F. Fauri, L'economia italiana dal 1945 ad oggi, cit., p. 130.
15 G. Amato, A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull'Italia, cit., p. 96.
16 P. Battilani, F. Fauri, L'economia italiana dal 1945 ad oggi, cit., p. 134.
17 G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, cit., p. 162.
18 G. Amato, A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull'Italia, cit., pp. 154-155.
19 G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica, cit., p. 10.
20 Potremmo definire l'antipolitica come il rifiuto della politica quale meccanismo che impone regole alla società al fine di educarla ad un progetto di trasformazione di se stessa e del mondo.
21 G. Orsina, L'antipolitica dei moderati. Dal qualunquismo al berlusconismo, in «Ventunesimo secolo», 2013, n. 30, p.
22 G. Amato, A. Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull'Italia, cit., p. 214.
23 In un'enigmatica intervista rilasciata a G. Riotta il 6 marzo 2009, Tremonti dichiara: «Negli anni Novanta inizia una moneta diversa da quella 'buona', gli stati spesso rinunciano alla sovranità monetaria, consentono che a fianco della moneta sovrana nasca una moneta privata, commerciale, parallela, fondata sul nulla: è quello che ha fondato la crisi [...] Quello che farei è: più Stato, più decisamente».
24 La citazione è tratta da un documento in cui la banca privata JP Morgan critica alcune Costituzioni europee che hanno tratti socialisti, vedendo in questi un limite alla crescita.


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