Whats the use of a title? è il titolo di una celebre poesia di Bukowski, interpretata perfino da Luciano Ligabue durante uno dei suoi live. Non so come la pensasse l'ormai abusato Charles ma credo che a volte un titolo azzeccato, soprattutto quando è il titolo di copertina di un libro, sia come un messaggio lanciato ad un lettore possibile, un imperativo sussurrato alle orecchie che dice: "sfogliami!".
Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero di George Steiner è proprio quel tipo di titolo. Specchi per le allodole, se volete, ma certamente c'è qualcosa di attraente e forse anche di vero nella "tristezza del pensiero" se anche nel linguaggio comune tendiamo ad indicare la spensieratezza come letizia e serenità. Il portato del pensiero sarebbe allora la tristezza, la malinconia oppure – come scrive l'autore – la colpa di un'illecita acquisizione di conoscenza, un atto di hybris: «ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare, perché nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai»; l'eco del Genesi è inevitabile. Non sembra nemmeno possibile regredire da questo stato di cose, smettere di pensare equivale a morire, il pensiero è la specifica "condanna ontologica" dell'homo sapiens.
Nonostante ciò, Steiner ritiene che l'infinità del pensiero – ovvero la sua produttività potenzialmente infinita – sia «il marcatore dell'eminenza umana» ciò che distingue «quel che è peculiarmente umano nell'animale umano». Tuttavia si tratta di una infinità incompleta perché non sapremo mai quali sono i confini del pensiero rispetto alla totalità del reale, senza contare il fatto che molte domande che l'uomo pone a se stesso sono destinate a rimanere senza risposta. Ecco perché il dubbio, rispetto a ciò che sappiamo, e la frustrazione, rispetto a ciò che non potremo mai sapere, costituiscono il primo motivo di tristezza del pensiero.
Secondo l'autore, il pensiero sarebbe qualcosa di assolutamente profondo e radicato, un fenomeno pre-linguistico che solo rimanendo estraneo al linguaggio riuscirebbe a mettere in salvo la propria purezza. Continuamente disturbato da elementi estranei, il pensiero riesce a trovare il proprio sviluppo autentico solo in casi del tutto eccezionali, per esempio nell'astrazione dei matematici o nella meditazione dei mistici, mentre il pensiero dei più non sarebbe altro che «un'impresa pasticciata». Questo ulteriore motivo di tristezza si aggiunge al fatto che non c'è rimedio a questo stato di cose perché «la capacità di pensare pensieri che valga la pena pensare, per non dire esprimere e preservare, è relativamente rara» e nessuno può essere in grado di insegnare come pensare, la genialità sfugge a qualsiasi tecnica formativa.
Eppure i pensieri che abbiamo «sono il nostro unico possedimento sicuro», talmente sicuro da essere inaccessibile a chiunque; in tal senso la menzogna – quasi impossibile in assenza di linguaggio – può essere considerata l'esempio paradigmatico della privatezza dei nostri pensieri. Tuttavia, c'è un senso per cui ciò che pensiamo non è propriamente nostro. Infatti, i nostri pensieri «sono stati pensati, sono pensati, saranno pensati milioni e milioni di altre volte da altri», sono merci usate, cliché ripetuti senza fine. Una superficiale riflessione è sufficiente per rendersi conto che la vera originalità di pensiero è un'eccezione estremamente rara: ognuno di noi pensa ciò che è stato già pensato da altri, e nessuno, nemmeno il grande genio, potrà mai avere la certezza di non avere in mente un'idea di seconda mano.
Il pensiero è anche di facile spreco, consciamente o inconsciamente, durante il sonno o la veglia pensiamo continuamente ma solo una piccola parte di questa attività sfugge alla «spazzatura dell'oblio». Quella che vi sfugge è condannata ad essere mediata, in quanto l'originaria purezza e pienezza del pensiero degenera inevitabilmente nell'imperfezione di ogni artefatto possibile (incluso il linguaggio), perdendo così l'ideale purezza: per quanto ci si sforzi di trovare "le parole giuste", la sensazione di non riuscire a comunicare ciò che si prova è fin troppo comune, e questo è uno dei motivi che ci rende estranei gli uni agli altri. La parziale e incompleta comunicabilità del pensiero è un altro motivo di tristezza.
Il testo di Steiner è molto denso, magistralmente scritto ma di non facile lettura per chi è digiuno di filosofia. Alcune tesi tuttavia sembrano ripetersi, infatti ci si può chiedere come mai i (possibili) motivi della tristezza del pensiero debbano essere proprio dieci, un numero tondo tondo. La prospettiva dell'autore pare essere platonica, con il pensiero che attinge ad un universo di purezza e pienezza semantica, mentre non si capisce bene quale sia il ruolo del linguaggio nella genesi del pensiero, questo forse è l'unico limite di una lettura più che piacevole.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
Commenti
Posta un commento