Negli anni Novanta il celebre storico inglese Eric J. Hobsbawm propose una fortunatissima e fortemente suggestiva periodizzazione per il XX secolo che venne definito “breve” a causa di due eventi che avrebbero contrassegnato e definito un’epoca: lo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914, a cui si lega indissolubilmente la Rivoluzione d’ottobre, e il crollo del comunismo sovietico nel 1991. Premessa fondamentale della sua proposta – com’è ovvio – è l’idea che le epoche della storia non possano corrispondere alla convenzionale divisione del tempo in secoli, mentre alcuni avvenimenti sarebbero talmente significativi da imporre, retrospettivamente, una linea di demarcazione perlomeno in ambito storiografico. Insomma, secondo Hobsbawm – studioso di impostazione marxista – non è possibile raccontare il XX secolo senza tenere in considerazione l’impatto che il comunismo ebbe sulla storia globale. Parafrasando una formula di un mio professore universitario, potremmo dire che per Hobsbawm “il XX secolo è il secolo del comunismo”.
A più di vent’anni dalla sua proposta possiamo però chiederci: la tesi del “secolo breve” è ancora valida? A questa domanda ha cercato di rispondere Silvio Pons – docente di Storia dell’Europa Orientale all’Università di Roma Tor Vergata e direttore della Fondazione Istituto Gramsci – che il 19 aprile scorso ha tenuto un seminario presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Catania dal titolo Il crollo dell'Unione Sovietica: la fine del secolo breve?.
Secondo Pons, la tesi di Hobsbawm è chiara, il XX secolo è breve perché l’esperienza del comunismo europeo e sovietico (1917-1991) ne ha segnato profondamente l’essenza, infatti – stando alle parole dello stesso storico britannico – «la storia del breve ventesimo secolo non può essere compresa senza la Rivoluzione russa e i suoi effetti diretti e indiretti, non da ultimo perché il comunismo finì per essere il salvatore del capitalismo liberale, sia perché consentì all’Occidente di vincere la Seconda guerra mondiale contro la Germania di Hitler, sia perché fornì al capitalismo l’incentivo per riformare se stesso». In queste parole è possibile rinvenire due argomenti distinti: 1) non si può raccontare il Novecento trascurando la storia del comunismo; 2) gli effetti dirompenti della Rivoluzione d’ottobre e del comunismo europeo-sovietico hanno profondamente inciso sulle caratteristiche del capitalismo e sui connotati di tutto il secolo scorso, a tal punto da indurre a rileggerne l’inizio e la fine. Mentre il primo argomento non suscita particolari problemi, dato che è innegabile l’importanza del comunismo all’interno di una storia del Novecento, il secondo potrebbe suscitare qualche perplessità. In primo luogo, secondo Pons, l’idea per cui il comunismo avrebbe permesso un “capitalismo dal volto umano” sarebbe più una suggestione che una tesi realmente dimostrata, infatti le socialdemocrazie europee – destinatarie di questa argomentazione polemica – sarebbero state piuttosto sfavorite dalla presenza del sistema sovietico, dove l’intervento della politica nell’economia, ovvero la sostanza della proposta socialdemocratica, aveva dato luogo alla nascita di regimi autocratici e monopartitici. Quindi, secondo Silvio Pons, Hobsbawm non credeva che il capitalismo avesse le risorse per riformare se stesso. Quest’idea potrebbe spiegare un’altra delle critiche che sono state fatte all’opera Il secolo breve, e cioè la marginalità del ruolo degli Stati Uniti. Infatti, contravvenendo alla propria ispirazione gramsciana, lo storico britannico non costruisce una narrazione in chiave egemonica bensì in chiave di influenza indiretta, cioè racconterebbe la storia di un secolo partendo non dalla potenza egemone ma dalla sua diretta avversaria, l’Unione Sovietica1. Quella di Hobsbawm sarebbe perciò – secondo Pons – una storia rigidamente bipolarista del XX secolo, non in grado di tenere nella giusta considerazione tutta una serie di soggetti che proprio durante quel secolo hanno posto le premesse per il mondo multipolare in cui ci troviamo a vivere, e che oggi sono protagonisti nel panorama mondiale. Insomma, con oltre vent’anni di vantaggio e assumendo una visione globale e meno eurocentrica si potrebbe pensare che Hobsbawm abbia sopravvalutato il ruolo del comunismo sovietico, trascurando invece alcuni attori rivelatisi successivamente centrali (il caso paradigmatico è chiaramente quello della Cina). Fatte queste considerazioni, il professor Pons pone una inevitabile domanda: tra il 1989 e il 1991, al momento del crollo, il comunismo aveva ancora una influenza tale da meritare il peso periodizzante che Hobsbawm gli attribuisce? La risposta potrebbe essere negativa se si pensa alla fine del comunismo come a un processo graduale, non improvviso, che si protrae per alcuni decenni, e che si consuma in un mondo sempre meno bipolare. Inoltre, secondo Pons, tanto più ci si allontana dalla Seconda guerra mondiale, tanto meno il mito e l’influenza dell’Unione Sovietica e del comunismo perdono autorità e legittimazione politica nonostante la grave crisi economica degli anni Settanta avesse investito primariamente il sistema capitalistico. A tal proposito il relatore fa notare che la delegittimazione politica dell’URSS precede la crisi economica e il crollo del sistema sovietico, il quale verrebbe destabilizzato proprio (ma probabilmente non soltanto) dalla fine del sistema bipolare di relazioni.
Concludendo, è ancora legittimo attribuire al crollo dell’Unione sovietica un significato talmente forte da farne lo spartiacque fra due epoche? Secondo Pons quella di Hobsbawm è una periodizzazione ancora valida per molti aspetti ma sempre più discutibile, specie se considerata dai particolari punti di vista che sono stati brevemente evidenziati.
Note:
1 - Hobsbawm scrive Il secolo breve subito dopo la caduta dell’URSS, quando ormai non c’era alcun dubbio su quale delle due potenze era uscita vincitrice dalla cosiddetta Guerra fredda.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
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